quanti tipi di licenziamento esistono?
Il licenziamento è l’atto mediante il quale il datore di lavoro, a prescindere dalla volontà del dipendente, fa cessare unilateralmente il rapporto di lavoro.
I vari tipi di licenziamento vengono disciplinati dalla Legge n. 604 del 15 luglio 1996, dello Statuto dei Lavoratori e dalla Legge n. 108 del 11 maggio 1990, i quali possono riassumere il licenziamento:
1) per giusta causa;
2) per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo);
3) il licenziamento collettivo.
Che cos’è il licenziamento per giusta causa?
Il licenziamento per giusta causa, viene disciplinato dall’ art. 2119 c.c. , il quale dispone che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.”
Questa tipologia di licenziamento viene comminato al verificarsi di una grave inadempienza commessa dal lavoratore, tale da compromettere il rapporto di fiducia del datore di lavoro con il dipendente.
La giurisprudenza ravviva quale elemento costitutivo della giusta causa l’immediatezza degli effetti del provvedimento espulsivo (c.d. licenziamento in tronco), il quale, tuttavia, resta compatibile con un congruo intervallo di tempo necessario all’accertamento dei fatti che vengono contestati al lavoratore, consentendo il recesso dal rapporto di lavoro, prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”.
La condotta del lavoratore, in questa fattispecie, risulta essere così grave da determinare il recesso immediato dal rapporto di lavoro, senza la corresponsione, da parte del datore di lavoro, dell’indennità di preavviso.
La giusta causa, ad esempio, può ravvisarsi nei seguenti casi:
– insubordinazione verso i superiori;
– furto di beni aziendali durante l’esercizio delle sue mansioni, di diffamazione dell’azienda e dei prodotti della stessa;
– minacce nei confronti del datore di lavoro o di colleghi;
– di danneggiamento di beni aziendali;
– di falsa malattia e falso infortunio;
– di violazione del patto di non concorrenza;
– di uso scorretto dei permessi per ex legge n. 104/92.
Le differenze tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo
Il licenziamento per giustificato motivo di tipo soggettivo è costituito da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro”.
Nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ad esempio, rientra:
– la condotta negligente del lavoratore;
– lo scarso rendimento del lavoratore;
– la violazione degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore;
– la lesione di un rilevante interesse del datore di lavoro.
Anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, al pari del licenziamento per giusta causa, rientra nell’ambito dei licenziamenti disciplinari, a cui andrà applicata la procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
In altri termini, il datore di lavoro dovrà procedere ad effettuare una precisa contestazione dell’addebito al lavoratore subordinato.
La differenza tra le due fattispecie di licenziamento è quello di collegare l’elemento soggettivo alla giusta causa al dolo o alla colpa gravissima.
Nel caso di licenziamento per giusta causa, il rapporto di lavoro si interrompe immediatamente e non è prevista alcuna indennità, mentre nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, viene prevista l’indennità di preavviso in favore del dipendente.
Come si impugna il licenziamento per giusta causa?
I termini per l’impugnazione del licenziamento viene fissato nel periodo di 60 giorni, decorrenti dal momento del ricevimento della lettera di licenziamento da parte del lavoratore.
Entro tale termine, infatti, il lavoratore dovrà contestare ed impugnare il recesso del contratto di lavoro.
Entro 180 giorni dalla spedizione della lettera di impugnazione, il dipendente, inoltre, dovrà anche depositare in Tribunale, innanzi al Giudice del Lavoro, apposito ricorso per l’introduzione del giudizio.
Alternativa, il lavoratore può avviare un tentativo di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Nel caso in cui venga intrapresa la via della conciliazione, si possono verificare tre soluzioni:
1) l’azienda, convocata, non si presenta alla conciliazione (in questo caso, il lavoratore dovrà ricorrere al Giudice del Lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione);
2) l’azienda si presenta, ma le parti non raggiungono un accordo (in questo caso, riprendono a decorrere i 180 giorni entro cui può depositare il ricorso in tribunale);
3) l’azienda si presenta e le parti raggiungono un accordo.
La mancata impugnazione del licenziamento nel termine pocanzi indicato comporta si l’impossibilità del lavoratore di accedere al regime di tutela reale, ma visto il permanere della illiceità del recesso del datore di lavoro, quest’ultimo potrà tuttavia esperire l’azione risarcitoria ordinaria.
In tema di licenziamento, al lavoratore che impugna il licenziamento incombe provare non solo il fatto costitutivo della pretesa, oltre al rapporto di lavoro subordinato, ma anche l’esistenza del licenziamento e l’avvenuta estromissione dal luogo di lavoro.
A seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.23/2015, il lavoratore ha la facoltà di ottenere il riconoscimento di un’indennità di licenziamento anziché la reintegra nel posto di lavoro, ovvero sia:
– ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 viene ancora a trovare applicazione l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori;
– a quelli assunti dopo il 7 marzo 2015 viene applica, invece, la normativa sull’indennizzo economico in base all’anzianità di servizio.
Nei casi di accertata illegittimità di licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa, il Giudice emetterà un provvedimento volto non solo a dichiarare l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento, ma anche di condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità in favore del lavoratore, non soggetta a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, per un importo comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità.
Nel caso di licenziamento illegittimo, discriminatorio o nullo, il Giudice del Lavoro potrà disporre il reintegro del lavoratore in azienda e condannare il datore di lavoro alla corresponsione di un risarcimento, pari ad un massimo di 5 mensilità a partire dal giorno del licenziamento e sino a quello del reintegro, sottraendo però quanto percepito dal lavoratore in un eventuale altro lavoro (oltre ai contributi dovuti all’INPS).
Se il giudice del lavoro ritiene il licenziamento illegittimo, il lavoratore avrà diritto ad un indennizzo calcolato in base agli anni di servizio svolti presso il datore di lavoro che l’ha licenziato.
Se i motivi del licenziamento non sono fondati, il lavoratore viene reintegrato e riceve un’indennità commisurata alla sua retribuzione e non superiore alle 12 mensilità.
Se il licenziamento è illegittimo per assenza di causa o vizi procedurali, il lavoratore l’indennità andrà da un minimo 2 e massimo 12 mensilità.
Se il licenziamento viola i criteri stabiliti dalla Legge 223/91, l’indennità va da 4 a 24 mensilità.
Se l’azienda ha meno di 15 dipendenti, il licenziamento illegittimo da diritto ad un massimo di 6 mensilità di indennizzo.